Taxi Monamour è uno sguardo puro e autentico sulla realtà, un modo di fare cinema che va riscoperto e acclamato, nonostante la società dell’apparenza in cui viviamo tenti costantemente di relegarlo ai margini. Il film, infatti, è passato in sordina nelle sale cinematografiche, anche se rappresenta l’unica opera italiana ad essere stata selezionata al concorso delle Giornate degli Autori durante la Biennale di Venezia 2024, occasione in cui ha anche ricevuto il “Premio del Pubblico”.

«Ero sulla spiaggia», – racconta il regista, Ciro De Caro – «e ad un tratto due donne, probabilmente provenienti dall’est Europa, colpiscono la mia attenzione: erano così diverse, non capivo come l’una potesse incastrarsi con l’altra chiuse». Da questa immagine nasce l’idea del film che vede due anime fragili incrociare il loro cammino; si tratta di un incontro breve e fugace a causa della partenza di una delle due, ma che permette alle donne di ritrovare la fiducia nell’Altro, di riscoprire la vita sotto una luce più luminosa, nonostante il grande periodo di buio che, per motivi diversi, entrambe stavano attraversando.

«Sono cresciuto con i film francesi di Truffaut e di Rohmer, in cui apparentemente non accade nulla», così Ciro De Caro esordisce durante la presentazione della sua opera al cinema Spazio Alfieri di Firenze, dove il film è stato selezionato per la rassegna “Tesori Nascosti”. L’affermazione del regista vuole, da un lato, sottolineare da dove proviene la sua particolare attenzione ai momenti di vita quotidiana, e dall’altro, motivare tutte quelle scelte registiche ben visibili nel lungometraggio: la videocamera a mano, un set disadorno composto da attori poco noti, l’uso minimale di trucco e luci. De Caro, allora, si rifà a tutta quella scuola cinematografica basata sull’essenzialità, in cui l’occhio del regista si propone come uno sguardo genuino su dinamiche relazionali e su situazioni apparentemente poco interessanti, prive di grandiosità o di gesta eroiche. Le protagoniste sono due donne semplici e comuni: Anna (interpretata dalla co-sceneggiatrice Rosa Palasciano), che non sembra aderire alla famiglia borghese da cui proviene e che si scopre completamente sola alla notizia di una grave malattia, e Nadia, una schiva ragazza ucraina (Yeva Sai che interpreta le sue reali origini), che avverte una profonda nostalgia per il suo Paese, lontano e annientato dall’abominio della guerra. Sullo sfondo, dunque, aleggia anche la situazione politica e storica contemporanea, che permette di tanto in tanto una riflessione sul mondo odierno.

Tuttavia, il fulcro del film è il legame che nasce casualmente tra le due donne: esse si scoprono complici, si sostengono con cura e delicatezza, scelgono di essere per l’altra ciò che entrambe avrebbero sempre desiderato per sé stesse. Una sera di fine estate, un’attesa troppo lunga alla fermata del bus: così le due giovani intrecciano le loro vite; fin da subito si fiancheggiano a vicenda, decidendo di accettare l’ambigua proposta «Taxi mon amour?» (espressione da cui proviene il titolo del film). Sulle note di La Javanaise(1968) di Serge Gainsbourg, le due cominceranno ad avvicinarsi lentamente, fidandosi man mano l’una dell’altra; si corteggeranno vicendevolmente, ognuna con i propri modi, fino al momento finale in cui saranno costrette a dirsi addio.

Durante la visione del film, emerge la tendenza del regista a non presentarci delle inquadrature pulite e preordinate, piuttosto egli mira a cogliere una serie di emozioni nascoste che vengono portate alla luce in maniera intima e sottile. Un esempio eclatante di questa capacità del regista è rintracciabile in particolare nell’inquadratura all’aeroporto, dove Anna accompagna il fidanzato, in partenza per un lungo viaggio di lavoro. La videocamera, posta all’interno della macchina, non segue Anna e il suo compagno; essa inquadra sì un saluto, ma non quello dei protagonisti, bensì ci restituisce l’immagine di due persone, esterne al racconto, che si stanno separando. La scelta registica di eludere il momento clou della narrazione rimanda alla lontananza emotiva che i due hanno, deducendone che un allontanamento fisico in questo caso non comporta alcun cambiamento rilevante nel racconto. Inoltre, l’espediente del fuoricampo, si ricollega alla volontà di De Caro di sfidare le convenzionali tecniche di narrazione cinematografica, imprimendo sulla videocamera una realtà più autentica e non spettacolarizzata. Al pubblico, dunque, è richiesta una partecipazione attiva durante la visione, esso viene sollecitato a immaginare il saluto della coppia e, al contempo, a riflettere sul linguaggio cinematografico che, lavorando per sottrazione, rende evanescente l’intera scena.

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